martedì 24 agosto 2010

Repubblica fondata sul lavoro?

Repubblica fondata sul lavoro?
di Edgardo Rossi

La prima parte del primo articolo della Costituzione italiana recita: l'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Questo punto della nostra Carta Costituzionale è sempre stato poco rispettato in Italia, Paese dove il lavoro nero, l’evasione fiscale, la precarietà l’hanno sempre fatta da padroni. Non dovremmo quindi essere stupiti di quello che sta succedendo, eppure resta tanta amarezza.
In Sicilia tre precari della scuola stanno facendo lo sciopero della fame, dopo trent’anni di servizio non servono più, i tagli apportati dalla finanziaria hanno ridotto il personale e quindi gli esuberi devono stare a casa. Dovrebbe essere sorprendente che una persona svolga un’attività per trent’anni senza “entrare in ruolo”, non è normale che una persona debba provare per così tanto tempo le sue attitudini. O meglio non è normale da qualunque altra parte del mondo, in Italia è la regola. Sono migliaia nella pubblica amministrazione ad essere precari, e senza possibilità alcuna di stabilizzazione. Dipendono dai numeri della finanziaria, se ci sono i soldi si lavora, se no, no. Troppo giovani per andare in pensione, senza avere diritto ad alcuna cassa integrazione si trovano proiettati nel mondo della disoccupazione, obbligati ad inventarsi nuove attività, ma senza aiuto alcuno. In Italia se hai superato gli “anta” non ti prende più nessuno, forse puoi trovare del lavoro nero.
Ma qui in Italia non ci si stupisce neanche di operai licenziati perché troppo attivi sindacalmente, reintegrati dal giudice del lavoro, ma non accettati dal datore di lavoro al punto da impedire loro di entrare in fabbrica. Il datore di lavoro ha fatto ricorso alla sentenza del giudice e quindi, nel frattempo, gli operai non sono graditi.
Non si resta sorpresi che degli operai debbano restare in sospeso su una piattaforma per difendere il loro posto di lavoro da delle basse speculazioni finanziarie (e questa storia è finita bene). Che altri operai debbano vivere nel dismesso carcere dell’Asinara, perché la loro fabbrica non è più considerata produttiva, nonostante sia in grado di funzionare benissimo. Nell’Isola dei disoccupati si sono presentati in tanti, ma il problema resta.
L’elenco di situazioni analoghe potrebbe continuare, passando dagli insegnanti sui tetti dei provveditorati, dai pastori sardi che bloccano gli scali aeroportuali, dai produttori di latte che hanno pagato le multe e si sentono presi in giro perché altri non solo non le hanno pagate ma sono appoggiati dal governo nella loro intenzione di non pagare alcunché (ma questa è un’altra storia).
Il problema è (viene detto) che mancano i posti di lavoro, e che sarà ancora così per un po’, anche se la crisi è finita.
Il fatto che le banche, i cui utili sono in costante aumento, non assumano più, anzi mandino in prepensionamento e mirino a ridurre il personale, quale posto occupa nella crisi che sta finendo? Le imprese che chiudono per riaprire in altri Paesi dove il costo del lavoro è più basso, c’entrano qualcosa? Il fatto che gli stipendi medi degli Italiani siano tra i più bassi dell’unione europea, che ruolo ha in tutto questo? C’è da dire però che molti dirigenti nel nostro Paese incassano bene, e che in compenso la classe politica italiana è la meglio pagata di tutta l’Europa.
Alla fine di questa riflessione, di questa visione d’insieme di questo Paese dove il lavoro dovrebbe avere un ruolo primario, non vedo alcun programma per superare questa decadenza. Tutto è lasciato al caso, o meglio le decisioni sono prese da chi detiene il potere economico, infatti si sta allargando sempre di più la forbice tra i ricchi (che tendono ad aumentare i loro beni) e i poveri (in costante aumento). Smantellato lo Stato sociale, troppo costoso (dicono), non si è provveduto ad attuare autentiche liberalizzazioni per cui i poteri forti hanno accresciuto le loro aree d’influenza.
Io sarò un “nostalgico” ma ritengo che in momenti di crisi gli interventi da parte dei governi ci debbano essere e debbano tutelare soprattutto le fasce più deboli economicamente, ma non con sterili e saltuari aiuti economici bensì con l’applicazioni di regole di tutela che mirino ad un’equa ripartizione degli utili. Non è un’idea mia, ne parlava un certo Keynes più di ottant’anni fa. Sembra però che gli uomini abbiano la memoria corta. E qui si inserisce l’atavica povertà culturale del nostro Paese, ma questa è un’altra storia, anche più complessa e articolata di quella che ho appena concluso e che rimando ad altri interventi.