lunedì 1 dicembre 2008

Albero di Luce (blu per la precisione)


La Scuola di Elea: Parmenide, Zenone, Melisso

La scuola eleatica

Parmenide
Elea V secolo a.C.
1. Vita e opere. Parmenide nacque ad Elea città della Magna Grecia (oggi Velia, cittadina compresa fra Punta Licosa e Capo Palinuro), secondo alcune fonti nel 515 circa secondo altre nel 540, le notizie su di lui si riducono al fatto che egli scrisse le leggi per la sua città, che fu forse allievo o del pitagorico Aminia o di Senofane di Colofone e che morì verso la metà del V secolo a.C. Ad Elea fondò la sua scuola che fu detta eleatica, che ebbe una grande influenza sul pensiero greco. Inoltre sappiamo che ebbe per allievo Zenone di Elea e con lui si recò ad Atene dove tenne (ma in proposito mancano valide testimonianze) delle lezioni.
Ha lasciato un poema che la tradizione ci rimanda con il generico titolo “Sulla natura” di cui ci sono pervenuti integralmente il prologo (32 versi), quasi tutta la prima parte e frammenti della seconda per un totale di 154 versi (divisi in 19 frammenti). La prima parte del poema è dedicata alla verità (aletheia), la seconda all’opinione (doxa)
La filosofia di Parmenide ruota intorno al concetto di “Essere”, per l'eleate l'Essere è Uno e non può essere due, perché se così fosse l'altro sarebbe il Non essere il quale non può esistere. Inoltre per Parmenide Essere e Pensare sono la stessa cosa e le attestazioni dei sensi sono sbagliate. Così dicendo Parmenide pone in evidenza (anche se inconsapevolmente) un principio, detto di non contraddizione, che per lungo tempo è stato fondamentale nella storia del pensiero filosofico e cioè: il pensiero non può mai cadere in contraddizione con se stesso, affermando e negando contemporaneamente.
Con il suo pensiero Parmenide appare come un radicale innovatore della filosofia della physis, modificando profondamente la cosmologia dal punto di vista concettuale e trasformandola di fatto in una ontologia (teoria dell'essere). Ma ripercorriamo più dettagliatamente il pensiero di questo filosofo.
2. La teoria dell’essere. Rifacendosi ad un’antica tradizione Parmenide ci narra che la dottrina da lui esposta gli è stata rilevata da una dea che lo accoglie benignamente, dopo che egli era stato accompagnato al suo cospetto dalle figlie del Sole su di un carro trainato da “accorte cavalle”. Egli era giunto in tale luogo dopo aver superato le porte del giorno e della notte”, lì la dea gli annuncia che egli dovrà essere informato di tutto; “sia del cuore che non trema, il solido cuore della verità ben rotonda, sia delle opinioni dei mortali in cui non vi è vera sicurezza”. Il principio rivelato dalla dea è stato variamente interpretato da vari studiosi, tali interpretazioni sono legate al significato attribuito all’è (esti) usato da Parmenide per indicare la realtà del suo essere. L’è parmenideo è interpretato in greco con almeno tre significati; copulativa (è qualcosa), esistenziale (esiste) o veridica (è vero). Si pone poi il problema su quale sia il soggetto della voce è, che l’eleate lascia sottinteso. Alcuni studiosi lo intendono come impersonale, altri semplicemente come un soggetto sottinteso (ovvero:l’essere è). La teoria di Parmenide ruota comunque intorno ad una verità rivelata da una dea, tal verità, per alcuni studiosi, è la verità logica del principio di non contraddizione (“l'essere è e non può non essere; il non-essere non è e non può in alcun modo essere” o più brevemente “è e non può non essere”) e del terzo escluso (“è o non è”). D’altronde appare evidente che l’essere parmenideo (il grande principio) è l’essere del giudizio, l’è (etsi) dell’affermazione. Su tali basi si costituisce l’ontologia parmenidea, che il filosofo argomenta nel suo poema con una serie di deduzioni logiche per circa 50 versi.
Possiamo dunque affermare che al centro dell’insegnamento dell’eleate c’è l’affermazione che fuori dall'essere non c'è nulla e quindi anche il pensiero è essere (per Parmenide, non è possibile pensare il nulla); da tale intuizione il filosofo di Elea trae una serie di conseguenze logiche:
- l'essere è ingenerato (altrimenti dovrebbe derivare dal non-essere, ma il non-essere non c'è);
- è incorruttibile (perché altrimenti dovrebbe finire nel non-essere);
- non ha né passato né futuro (altrimenti, una volta passato, non sarebbe più, o, in attesa di essere in futuro, non sarebbe ancora) e dunque è in un eterno presente;
- è immobile ed è omogeneo (tutto uguale a sé, perché non può esserci più o meno essere);
- è perfetto (e quindi deve essere pensato come una sfera, cioè la figura geometrica perfetta);
- è limitato (in quanto tale termine corrispondeva al significato di completo, e quindi nel limite si vedeva un elemento di perfezione;
- è unico, cioè uno, perché se esistesse un altro essere tra l’uno e l’altro dovrebbe esserci il non-essere, che però non può essere.
Se quanto su affermato è la verità (l’unica possibile per Parmenide), ne consegue che ciò che i sensi colgono come diveniente e molteplice è falso. È evidente che “essere” e “non-essere” sono presi nel loro significato integrale e univoco, per tale motivo l'essere è il puro positivo e il non-essere è il puro negativo, l'uno è l'assoluto contraddittorio dell'altro, l’uno esclude l’altro.
Le teorie di Parmenide ovviamente suscitarono tra gli studiosi dell’epoca non poche polemiche ed egli fu costretto a giustificare il suo principio, ma come lo fece?
Egli utilizzò una serie di argomentazioni molto semplici:
- tutto quello che uno pensa e dice, è:
- non è possibile pensare (e quindi dire) se non pensando (e quindi dicendo) ciò che è:
- pensare il nulla vuol dire non pensare affatto, di conseguenza dire il nulla significa non dire nulla.
Da tali affermazioni se ne deduce che il nulla è impensabile e indicibile e che pensare ed essere coincidono.
Come già detto in precedenza si tratta della prima grandiosa formulazione del principio di non-contraddizione, cioè di quel principio che afferma l'impossibilità che i contraddittori coesistano contemporaneamente. Nel caso su esposto i due supremi contraddittori sono: “essere” e “non-essere”; infatti se c'è l'essere, ne consegue necessariamente che non c’è il non-essere. Parmenide scopre tale il principio soprattutto nella sua valenza ontologica (essendo l’essere l’oggetto dei suoi studi); facendolo però apre un percorso che porterà a studiare il principio di non contraddizione anche nelle sue valenze logiche, gnoseologiche e linguistiche, e in tali ambiti esso diventerà il principale caposaldo dell'intera logica occidentale.
3. Una nuova concezione filosofica. Per la sua integrale e univoca visione dell’essere (e del non-essere) e del conseguente principio di non-contraddizione Parmenide introduce un nuovo modo di intendere il percorso filosofico, d’altronde nel suo poema egli evidenzia gli attributi strutturali del suo concetto dell'essere deducendoli con una ferrea logica e con una lucidità sorprendente, al punto che la sua fama divenne subito grandissima e che Platone definì l’eleate “venerando e terribile”, e considerò l’essere parmenideo come uno dei temi più difficili e complessi da risolvere (e infatti come vedremo riuscirà a superare tale scoglio con un abile gioco dialettico).
Appare dunque evidente che per quanto il tema dell’unicità e immobilità dell’essere fosse stato subito criticato e avesse trovato (come attesta Zenone) numerosi detrattore, la logica che supportava le argomentazioni creò non poche difficoltà ai pensatori successivi, questo attesta comunque la grandezza del pensiero di Parmenide.
Egli giunse dunque alla certezza che l’unica verità è: che l'essere è ingenerato, incorruttibile, immutabile, immobile, uguale, sferiforme e uno. Di conseguenza tutte le altre cose non sono altro che vani nomi. E la via della verità è la via della ragione (che egli definì il sentiero del giorno), mentre la via dell'errore è quella dei sensi (ovvero il sentiero della notte). Sono i sensi che ci ingannano attestando l’esistenza del non-essere, mostrandoci l'esistenza del nascere e del morire, del movimento e del divenire. La dea invita Parmenide a non lasciarsi ingannare dai sensi e dall’abitudine che essi creano, quindi lo esorta a contrapporre alle apparenze dei sensi le certezza della ragione e il suo principio. Ovviamente cade preda dell'errore non solo chi espressamente afferma che “il non-essere è”, ma anche chi crede di poter ammettere, insieme, essere e non-essere e, ovviamente, chi pensa che le cose passino dall'essere al non-essere e viceversa. Questa posizione (che è la più diffusa e la più ingannevole) comprende strutturalmente la precedente, anche se la esprime in maniera differente e solo apparentemente più logica. La dea dice a Parmenide che la via dell'errore riassume tutte le posizioni di coloro che ammettono espressamente o fanno ragionamenti che implicano il non-essere, che non è e non può essere, perché impensabile e indicibile.
4. La terza via o dell’apparenza plausibile. Giunto a questo punto Parmenide fa pronunciare alla dea parole differenti, dopo gli attacchi alla via dell’apparenza (doxa fallacia) essa parla di una terza via, quella delle “apparenze plausibili”. L’eleate porta il confronto tra l’apparenza e la verità verso un ammissibile compromesso perché accetta la correttezza di un certo tipo di discorso che ammette i fenomeni e le apparenze delle cose, ma a patto che esso non si scontri con il grande principio e non ammetta, insieme, essere e non-essere. Questo tema è trattato nella seconda parte del poema (in gran parte perduta) dove la dea espone: “l'ordinamento del mondo come appare”.
È in questa parte che il sistema di Parmenide sembra trovare le maggiori difficoltà, egli infatti doveva giustificare l’apparenza senza negare il suo grande principio.
Parmenide fa riferimento alle tradizionali cosmogonie che si erano basate sulla dinamica degli opposti, uno concepito come positivo (e quindi come essere), l'altro come negativo (e quindi come non-essere). Proprio il non aver capito che gli opposti devono essere pensati come inclusi nella superiore unità dell'essere costituiva l’errore di tali concezioni. La dea comunica all’eleate che gli opposti, in realtà, sono entrambe “essere”. Giunto a questo punto Parmenide cerca, partendo dalla coppia di opposti “luce” e “notte”, di proporre una deduzione dei fenomeni, ma lo fa proclamando che “con nessuna delle due c'è il nulla”, cioè che entrambe sono essere.
Con quali ragionamenti Parmenide abbia giustificato questa sua deduzione sul mondo dei fenomeni non lo sappiamo esattamente, troppo scarsi sono i frammenti pervenutici. Ma con tale concezione l’eleate cercava di eliminare il non-essere e di eliminare la morte, che è una forma di non-essere. Nelle parti pervenute Parmenide attribuiva sensibilità ai cadaveri, affermando che essi mantenevano “sensibilità per il freddo, per il silenzio e per gli elementi contrari”. Appare chiaro che in tal modo i cadaveri non sono, in realtà, tali. Quell’oscura notte (quel freddo) in cui i cadaveri sembrano finire non è il non-essere (cioè il nulla), e, quindi, i cadaveri permangono nell'essere, e continuano, in qualche modo, a sentire e quindi a vivere.
Tali giustificazioni vanno però incontro ad insuperabili aporie (problemi) ammettendo ciò che nella prima parte del poema era stato negato, una differenziazione (anche se solo apparente secondo Parmenide) dell’essere.
Nel ragionamento dell’eleate però l’apparente contraddizione era superata dalla logica deduzione che una volta che luce e notte (e tutti gli opposti in generale) venivano riconosciute come “essere”, dovevano perdere qualsiasi carattere differenziante e diventare identiche, proprio perché entrambe sono essere, e l'essere è “tutto identico”. L'essere parmenideo non ammette nessuna differenziazioni né nelle qualità né nelle quantità. Ne consegue che, in quanto assorbiti nell'essere, i fenomeni risultavano non solo resi uguali, ma anche immobilizzati, come bloccati, pietrificati, nella fissità dell'essere.
5. Conclusioni. Dunque, il grande principio enunciato da Parmenide salvava l'essere, ma non i fenomeni, tracciando una strada nuova con cui i filosofi successivi si confronteranno e aprendo un dibattito che i successori di Parmenide renderanno particolarmente vivo per creatività e argomentazioni. L’influenza dell’eleate sul pensiero greco fu immensa, il misterioso e affascinante etsi della via della verità e la deduzione dell’ente (eón greco, che già chiaramente compare nelle tesi parmenidee) esercitarono una grande attrazione su tutta la filosofia del V secolo a.C., dall’ontologia alla filosofia della natura, alla dialettica, all’etica.
6. Testi dal Poema “Sulla natura” di Parmenide
Dal poema “Sulla natura”, fr. 1
Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuole giungere,
mi condussero via, dopo che le dee mi ebbero condotto e mi ebbero posto
sulla via molto famosa, che appartiene alla divinità
e che porta per tutti i luoghi l'uomo che possiede il sapere.
Là fui condotto. Infatti, là mi portarono accorte cavalle
tirando il mio carro, e fanciulle indicavano il cammino.
L'asse dei mozzi mandava un sibilo acuto,
infiammandosi - siccome era premuto da due rotanti
cerchi da una parte e dall'altra -, quando affrettavano il corso nell'accompagnarmi,
le fanciulle Figlie del Sole, dopo aver lasciato le case della Notte,
verso la luce, togliendosi con le mani i veli dal capo.
Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno,
con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra;
e la porta, eretta nell'etere, è rinchiusa da grandi battenti.
Di questi, Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi che aprono e chiudono.
Le fanciulle, allora, rivolgendole soavi parole,
con saggezza la persuasero, affinché, per loro, la sbarra del chiavistello
senza indugiare togliesse dalla porta.
E questa, subito aprendosi,
produsse una vasta apertura dei battenti, facendo ruotare
nei cardini, in senso inverso, gli assi di bronzo
fissati con chiodi e con borchie. Di là, subito, oltre la porta,
diritto per la strada maestra le fanciulle guidarono carro e cavalle.
E la dea di buon animo mi accolse, e mi prese la destra
e incominciò a parlare così e mi disse:
"O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici,
con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora,
rallegrati, perché non una sorte infausta ti ha condotto a percorrere
questo cammino - infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini-,
ma legge divina e giustizia. Bisogna che tutto apprenda:
e il solido cuore della verità ben rotonda
e le opinioni dei mortali, nelle quali non c'è una vera certezza.
Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono
bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso".

Dal poema “Sulla natura”, fr. 7 e 8

Poiché non potrà mai avere forza di costrizione che sia ciò che non è:
ma allontano tu invece il pensiero da questa via di ricerca
e fa sì che l’abitudine nata dalle molte esperienze degli uomini non ti costringa
a dirigere su questa strada l’occhio che non vede e il rimbombante udito
e la lingua, ma con il solo pensiero esamina e decidi la dibattuta questione
che da me ti fu detta. Rimane solo di parlare della via
che dice che è. Su questa vi sono moltissimi segni:
essendo ingenerato e immortale
perché è integro nelle sue parti e saldo senza un termine a cui tenda.
E non è mai stato e non sarà mai, perché è ora tutto unito nella sua completezza
uno, continuo. E infatti quale origine vorresti trovare per esso?
In quale modo sarebbe nato, e dove? Dal non-essere non ti concedo
né di dirlo né di pensarlo, perché non è possibile né dire né pensare
che non è. Quale necessità lo avrebbe mai costretto
a nascere, dopo o prima, se derivasse dal nulla?
Perciò è necessario che sia per intero, o che non sia per nulla.
E neppure dall'essere concederà la forza di una certezza
che nasca qualcosa che sia accanto ad esso. Per questa ragione né il nascere
né il perire concesse a lui la Giustizia, sciogliendolo dalle catene,
ma saldamente lo ritiene. La decisione intorno a tali cose sta in questo:
“è” o “non è”. Si è quindi deciso, come è giusto,
che una via si deve lasciare, in quanto è impensabile e inesprimibile, perché non del vero
è la via, e invece che l'altra è, ed è vera.
E come l'essere potrebbe esistere nel futuro? E come potrebbe essere nato?
Infatti, se nacque, non è; e neppure esso è, se mai dovrà essere in futuro.
Così la nascita si estingue e la morte rimane ignorata.
E neppure è divisibile, perché tutto intero e uguale;
né c'è da qualche parte un di più che possa impedirgli di essere unito,
né c'è un di meno, ma tutto intero è pieno di essere.
Perciò è tutto intero continuo: che l’essere con l’essere è accosto.
Ma immobile, costretto nei limiti di grandi legami
è senza un principio e senza una fine, poiché nascita e morte
sono state cacciate lontane e le allontanò la vera certezza.
E rimanendo identico e nell'identico, in sé medesimo giace,
e in questo modo rimane là saldo. Infatti, Necessità inflessibile
lo tiene nei legami del limite, che lo rinserra tutt'intorno,
poiché è stabilito che l'essere non sia senza compimento:
infatti non manca di niente; se, invece, lo fosse, mancherebbe di tutto.
Lo stesso è il pensare il pensiero che è,
perché senza l'essere nel quale è espresso,
non troverai il pensare. Infatti, nient'altro o è o sarà
all'infuori dell'essere, poiché la Sorte lo ha vincolato
ad essere un intero e immobile. Per esso saranno nomi tutte
quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere:
nascere e perire, essere e non-essere,
cambiare di luogo e mutare luminoso colore.
Inoltre, poiché c'è un limite estremo, esso è compiuto
da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera,
a partire dal centro uguale in ogni parte: infatti, né in qualche modo più grande
né in qualche modo più piccolo è necessario che sia, da una parte o da un'altra.
Né, infatti, c'è un non-essere che gli possa impedire di giungere
all'uguale, né è possibile che l'essere sia dell'essere
più da una parte e meno dall'altra, perché è un tutto inviolabile.
Infatti, identico da ogni parte, in modo identico sta nei suoi confini.

Zenone di Elea
1. Vita ed opere. Zenone nacque ad Elea (oggi Velia dei Romani) fra il 490-480 a.C., fu allievo di Parmenide, di cui era più giovane di circa venticinque anni (secondo le fonti risalenti a Platone), ma altre fonti differiscono sulla sua data di nascita. Fu legato da profonda amicizia a Parmenide di cui difese sempre il pensiero. Con Parmenide si recò ad Atene dove conobbe il giovane Socrate e dove tenne delle lezioni alle quali avrebbe assistito Pericle. Sulla sua morte esistono varie versioni, una narra del fatto che imprigionato da un tiranno Zenone venne sottoposto a tortura ma egli si troncò la lingua e la sputò addosso al tiranno medesimo. Una variante narra che Zenone denunciò gli uomini più fedeli del tiranno, questi li fece eliminare isolandosi e così autosconfiggendosi. Scrisse un'opera in prosa di cui ci restano cinque frammenti, in essa Zenone attacca ed irride i detrattori dell'opera di Parmenide, soprattutto difende l'unità dell'ente partendo da dei presupposti diventati famosi come i “paradossi di Zenone”.
2. L’inventore della dialettica. Il sistema utilizzato da Zenone per dimostrare l’assurdità di chi voleva credere nel mutamento delle cose si fondano su delle argomentazioni tra loro connesse da una serie di deduzioni logiche, tali far vedere che le conseguenze derivanti dagli argomenti utilizzati per confutare Parmenide erano ancora più contraddittorie e ridicole delle tesi che miravano a confutare. In pratica Zenone scoprì la confutazione della confutazione, cioè la dimostrazione per assurdo. Facendo vedere l'assurdità in cui cadono le tesi opposte all'Eleatismo, egli difendeva l'Eleatismo medesimo. Tale sottile forma di ragionamento è stata definita dai posteri dialettica, per tale motivo Zenone è considerato l’inventore della dialettica (così lo definì per primo Aristotele, che a lungo ne studiò le argomentazioni).
Gli argomenti (logoi) zenoniani ci sono giunti soprattutto grazie ad Aristotele e a Simplicio. La base di tali argomentazioni è apparentemente semplice e si divide in due gruppi: quelli contro l’ipotesi della pluralità degli enti e quelli contro il movimento (a cui si riferiscono i noti paradossi). Si conoscono anche altri due argomenti, uno contro l’esistenza del luogo e l’altro noto come quello del grano di miglio. Va ricordato che Proclo nel suo commento al dialogo “Parmenide” di Platone informa che gli argomenti di Zenone erano quaranta, se tale affermazione è corretta è evidente che molti di essi sono andati perduti, quelli che restano sono però sufficienti a farci capire la sottigliezza dialettica del pensiero dell’eleate.
Procedendo per ordine passiamo ad esaminare il primo gruppo che può essere schematizzato nella maniera seguente:
- se vi sono più cose, allora sono simili e dissimili allo stesso tempo;
- se vi sono più cose allora ogni cosa è infinitamente estesa e ogni cosa è infinitamente inestesa;
- se vi sono più cose allora sono infinite di numero e finite di numero;
- se vi sono più cose, allora sono uno e sono molti.
Si noti come Zenone, usando abilmente il ragionamento dicotomico, dimostri l’impossibilità per un ente di essere e contemporaneamente non essere, mettendo i detrattori del monismo parmenideo di fronte a degli assurdi logici. È pur vero che Zenone gioca sul suo terreno forzando abilmente il ragionamento a favore delle sue tesi.
3. I paradossi di Zenone. Il primo argomento usato da Zenone contro il movimento è quello detto dello “stadio” o della “dicotomia”. Egli affermava che si pretenderebbe (contro Parmenide) che un corpo possa, muovendo da un punto di partenza, giungere ad un termine stabilito. In realtà non è possibile arrivare all’estremità dello stadio. Tale corpo, dovrebbe prima di raggiungere la meta, e per farlo dovrebbe percorrere la metà della strada che deve percorrere, e prima ancora, la metà della metà, e, quindi, la metà della metà della metà, e così via, all'infinito (è infatti noto che la metà della metà della metà… non perviene mai allo zero). Ma non è possibile percorrere in un tempo finito uno spazio infinitamente divisibile.
Il secondo argomento è quello "dell'Achille". Con esso Zenone vuole dimostrare che Achille, noto per essere "il piè veloce", non potrà mai raggiungere la tartaruga, nota per essere lentissima se l’animale fosse posto anche solo un passo avanti rispetto all’uomo. Infatti prima di raggiungere la tartaruga Achille dovrà raggiungere il punto precedentemente occupato dall’animale, che però nel frattempo si sarà spostata di un intervallo, seppure piccolissimo, di spazio e così via. In tal modo la distanza tra Achille e la tartaruga non sarà mai uguale a zero, Infatti, se si ammettesse l'opposto, si ripresenterebbero le identiche contraddizioni del precedente argomento.
Zenone costruisce questi due argomenti basandosi sul presupposto concettuale (e la forza logica) che, posta l’infinita divisibilità dello spazio, il movimento di un corpo non raggiungerà mai la sua metà, perché dovendo superare infiniti punti di cui quella distanza è formata dovrà impiegarci un tempo infinito.
In effetti volendo dare un’esposizione matematica dell’argomento dell’Achille verrebbe fuori che: supponiamo che 1 sia la distanza che esiste all’inizio tra Achille (punto A) e la tartaruga (punto T), ora dato il presupposto che A e T si muovono con velocità diverse, con un rapporto di 1:100. Quando A avrà percorso il tratto 1, T sarà avanzato di 1/100, quando A avrò percorso il secondo tratto (1 + 1/100), T sarà avanzato di 1/100² e così via. Avverrà che la distanza tra A e T diminuirà progressivamente, ma non sarà mai uguale a zero, perché anche quando diventerà piccolissima sarà sempre costituita di parti. A dovrebbe riuscire a completare ciò che non si può completare, ossia la serie illimitata di termini 1 + 1/100 + 1/100² + 1/100³ …, ma questo significa che A dovrà correre per l’infinito. Il primo a confrontarsi con tale ragionamento fu Aristotele, che risolse la questione distinguendo tra piano reale e piano del pensiero. Egli affermò che nella realtà esiste solo il finito, mentre l’infinito è una semplice possibilità mentale di aumentare o diminuire indefinitamente una qualsiasi quantità data. Ma se nella realtà esistono solo distanze finite, chi si muove raggiungerà la sua meta e il più veloce raggiungerà il più lento. Nel caso dell’esempio dello stadio, formato dal tratto finito AB di lunghezza 1, nulla vieta che tale tratto sia indefinitamente diviso prima a metà, poi nella metà della metà e così via (AB = 1/2 + 1/4+ 1/8 + 1/16 + 1/32 + …), ma tale progressione infinita non potrà mai superare la quantità finita data di 1 = AB. Per analogo ragionamento anche la distanza tra Achille e la Tartaruga sarà brevemente colmata e il piè veloce catturerà l’animale, superandolo d’un tratto. La confutazione aristotelica è di grande valore, ma è valida solo in uno spazio reale finito.
Zenone aveva invece utilizzato l’ipotesi, logicamente e matematicamente legittima, della divisibilità all’infinito, quella scelta evidenzia l’esistenza di una sfasatura tra piano logico-matematico e piano fisico-reale. Nel XX secolo matematici-filosofi, e tra questi per primo Bertrand Russell nel trattato “Principles of Mathematics”(1903), vedono in Zenone un precursore della logica moderna capace di individuare un limite del pensiero umano. Non solo Zenone fu il primo ad ammettere la possibilità della divisione all’infinito, ponendo di fatto il concetto che sta alla base del calcolo infinitesimale. Proprio in ambito infinitesimale esistono possibili soluzioni all’annoso problema dell’Achille, anche se, secondo alcuni studiosi, rimanendo in ambito logico-filosofico, i due argomenti su esposti proprio per l’accettazione dell’infinita divisibilità dello spazio rimarrebbero inconfutati e inconfutabili.
Il terzo argomento, è detto "della freccia", dimostra che una freccia scoccata dall'arco, che l'opinione crede essere in movimento, è in realtà ferma. Infatti, in ciascuno degli istanti in cui è divisibile il tempo del volo, la freccia occupa uno spazio identico alla propria lunghezza; ma ciò che occupa uno spazio identico è in stato di quiete; allora, se la freccia è in riposo in ciascuno degli istanti, lo deve essere anche nella totalità (nella somma) di tutti gli istanti.
Il quarto argomento è noto come quello delle “masse nello stadio”, è il più complesso (e per molti versi il più sorprendente) dei quattro. Con tale paradosso Zenone afferma che in uno stadio un punto mobile va ad una certa velocità e contemporaneamente al doppio di essa, a seconda che sia rapportato ad un punto immobile oppure ad un punto che si muove in senso contrario alla stessa velocità, dando di fatto forma all’assurdo logico per cui “la metà del tempo è uguale al doppio”.
Per meglio comprendere l’originalità e la modernità di tale argomentazione la moderna critica tende ad utilizzare l’esempio dei treni. Se noi supponiamo tre treni disposti su binari paralleli, di cui i primi due corrono in direzioni opposte alla stessa velocità che poniamo sia di 100 km all’ora, e il terzo è immobile. Ora la velocità del treno posto al centro apparirà di 100 kmh nei confronti del treno fermo e di 200 kmh nei confronti del treno che si muove in senso opposto. Zenone ha, inconsapevolmente, anticipato la teoria della relatività di Einstein. Con però una grande differenza, quello che per Einstein è realtà (cioè la relatività del movimento), per Zenone è un assurdo logico che dimostra l’impensabilità razionale del nostro mondo e, di conseguenza, la verità della tesi di Parmenide sull’essere.
4 Gli altri argomenti zenoniani. Grande fama godette l’argomentazione detta del grano di miglio. Zenone, con tale argomento, negava la molteplicità basandosi sul contraddittorio comportamento che hanno molte cose insieme rispetto ad ognuna di esse (o parte di ognuna). Egli fece notare che molti chicchi, cadendo, fanno rumore, mentre un chicco solo (o una parte di esso) non lo fa. Nasce dunque una palese contraddizione, perché, se l'attestazione dell'esperienza fosse veritiera, un chicco dovrebbe fare rumore (con la debita proporzione) esattamente come lo fanno molti chicchi. Con tale esempio Zenone gioca abilmente sulla percezione sensibile e sui suoi limiti, dimostrando l’inaffidabilità dei sensi.
Infine un altro abilissimo gioco dialettico è quello utilizzato contro l’esistenza del luogo, detto anche paradosso dello spazio o del luogo. Zenone afferma che ogni cosa che esiste deve trovarsi in uno spazio, dunque lo spazio esiste, ma se esiste deve essere a sua volta in uno spazio e così via all’infinito.

Melisso
1. Vita e opere. Melisso nacque a Samo fra la fine del secolo VI e i primi anni del V a.C. La tradizione ci dice che fu, con Zenone di Elea, discepolo e continuatore di Parmenide. Fu esperto uomo di mare e abile politico. Nel 442 a.C. fu nominato stratega dai concittadini e guidò la flotta che sconfisse quella di Pericle in un’importante battaglia navale. Scrisse in prosa un libro “Sulla natura” o “Sull'essere”, di cui ci sono pervenuti, attraverso Simplicio, una decina di frammenti. Da essi risulta che l’opera di Melisso non fu, come era stato per Zenone, una difesa dialettica del pensiero del maestro, ma un ampliamento dell’originale teoria dell’essere.
2. Il pensiero. Melisso analizzò con rigore deduttivo la dottrina eleatica, e la corresse attribuendo all’essere parmenideo due nuovi attributi. In primo luogo, egli affermò che l'essere è "infinito" (e non finito come diceva Parmenide), perché non ha limiti né temporali, né spaziali, e perché, se fosse finito, dovrebbe confinare con un vuoto, cioè con un non-essere, il che è impossibile. Aggiungendo poi che proprio perché infinito, l'essere è necessariamente uno. La critica recente, analizzando questa affermazione, ha evidenziato un possibile legame tra Melisso e la scuola di Mileto, con un particolare riferimento ápeiron di Anassimandro.
In secondo luogo egli qualificò l’essere come "incorporeo", non nel senso che esso debba essere concepito come immateriale, ma nel senso che esso è privo di qualsiasi figura che lo determini, e non può, quindi, avere neppure la perfetta figura della sfera, come voleva Parmenide. Una concezione ardita per originalità che sembra preparare la strada a Platone, il quale per primo parlerà del concetto di incorporeo anche nel senso di immateriale.
In accordo con Parmenide, Melisso ritiene che solo il pensiero razionale possa giungere all’essere, superando i limiti dei sensi, legati ad una visione pluralistica del mondo. Il pluralismo, infatti, altro non sarebbe che un equivoco derivato dalla credenza nella validità della conoscenza empirica, nella quale domina l’opinione (doxa) che determina una conoscenza illusoria che porta l’uomo a vedere la realtà come molteplice e ricca di contraddizioni.
Melisso fu molto più radicale di Parmenide nell’eliminazione dell'opinione, cosa che egli fece con un ragionamento di grande arditezza speculativa, secondo il quale: l'ipotetico molteplice potrebbe esistere solo se potesse essere come l'Essere-Uno. Concetto espresso nella frase: "Se i molti fossero, dovrebbero essere ciascuno quale è l'Uno".
Con Melisso l'eleatismo concepisce un Essere eterno, infinito, uno, uguale, immutabile, immobile, incorporeo e giunge all’esplicita e categorica negazione del molteplice, e alla conseguente negazione dei fenomeni, visti non come uno strumento di conoscenza ed analisi ma come una manifestazione dell’illusoria realtà. In tal modo, però, gli Eleati lasciavano ai successori un grande problema: come fosse possibile riconoscere alla ragione le sue ragioni, e allo stesso tempo riconoscere le ragioni dell'esperienza, che pure attesta (per molti aspetti) il contrario. Insomma si trattava di salvare, ad un tempo, il principio di Parmenide e i fenomeni.
3. Testi dal Poema “Sulla natura” di Melisso
fr. 1 Diels-Kranz
Sempre era ciò che era e sempre sarà. Se, infatti, fosse generato, sarebbe necessario che, prima che fosse generato, non fosse nulla: e se, prima, non era nulla, per nessuna ragione nulla si sarebbe potuto generare dal nulla.

fr. 2 Diels-Kranz
E poiché, dunque, non si è generato, è e sempre era e sempre sarà, non ha neppure principio né fine, ma è infinito. Infatti, se si fosse generato, avrebbe un principio (infatti avrebbe cominciato a generarsi ad un certo momento) e una fine (infatti avrebbe finito di generarsi ad un certo momento); ma, poiché non ha avuto inizio e non ha terminato, era e sarà sempre, non ha principio né fine. Non è infatti possibile che sia sempre ciò che non è tutto.

fr. 7 Diels-Kranz
1. Così, dunque, è eterno, infinito, uno, tutto uguale.
2. E non può né perdere qualcosa né diventare più grande, né può mutare forma, e non prova dolore, né soffre pena. Infatti, se patisse qualcuna di queste cose, non sarebbe più uno. Se si alterasse, necessariamente l'essere non sarebbe uguale, ma dovrebbe perire ciò che era prima, e dovrebbe nascere ciò che non è. Se, dunque, si alterasse anche di un solo capello in diecimila anni, si distruggerebbe tutto quanto in tutta la durata del tempo.
3. Né è possibile che subisca mutazione di forma; infatti la forma che c'era prima non perisce, né si genera quella che non è. Ma, poiché nulla si aggiunge né perisce né si altera, come potrebbe qualcosa subire mutamento di forma? Se, infatti, qualcosa diventasse diverso, subirebbe senz'altro anche mutamento di forma.
4. E non prova dolore, perché non potrebbe essere tutto, se provasse dolore. Infatti, una cosa che prova dolore non può essere sempre; né potrebbe avere una forza uguale a una cosa che è sana. E non sarebbe neppure uguale, se provasse dolore: infatti, soffrirebbe se qualcosa gli venisse tolto o aggiunto, e, quindi, non sarebbe più uguale.
5. E ciò che è sano non potrebbe provare dolore: infatti, perirebbe ciò che è sano, cioè l'essere, e si genererebbe il non-essere.
6. E anche per il soffrire vale lo stesso ragionamento che si è fatto per il provare dolore.
7. E non c'è alcun vuoto: infatti, il vuoto non è nulla; e ciò che non è nulla non può essere. Allora l'essere neppure si muove; infatti, non può spostarsi in alcun luogo, ma è pieno. Infatti, se ci fosse il vuoto, si potrebbe spostare nel vuoto; ma, poiché il vuoto non c'è, non ha dove spostarsi.
8. E non potrebbe essere denso e raro. Infatti il raro non può essere pieno nello stesso modo che il denso, ma il raro è senz'altro più vuoto del denso.
9. E tra il pieno e il non pieno bisogna fare la seguente distinzione: se qualcosa fa luogo a qualcos'altro e l'accoglie, non è pieno; invece, se non fa luogo a qualcos'altro e non l'accoglie, è pieno.
10. Dunque, è necessario che sia pieno, se il vuoto non è. E se, dunque, è pieno, non si muove.

Applausi


Senofane di Colofone

Senofane di Colofone
Vissuto nel VI secolo a.C.
1. Vita e opere. Di Senofane sappiamo che viaggiò molto, abbandonò la sua patria nel 545 a.C. (all’età di 25 anni) per emigrare nelle colonie italiche, in Sicilia e in Italia meridionale. Da numerose testimonianze sappiamo che continuò a viaggiare senza fissa dimora fino a tardissima età, cantando come aedo le proprie composizioni poetiche, di cui ci sono pervenuti alcuni frammenti. Di questo girovagare ce n’è dà notizia egli stesso affermando di essere ancora girovago senza una fissa dimora all'età di ben 92 anni.
Proprio i viaggi furono alla base della sua formazione, entrato in contatto con molti popoli egli si convinse che il politeismo fosse un grave errore in cui l'uomo cadeva, si scagliò perciò contro tutti i culti e affermò l'esigenza del monoteismo. Essere per eccellenza è Dio il quale è unico, l'uomo deve abbandonare i falsi principi della sua immaginazione per cogliere l'essenza divina che ultrasensibile, perciò razionale. Un’antica tradizione lo indica come l’ispiratore di Parmenide, di cui forse fu maestro, e come il fondatore della scuola eleatica. Oggi però si tende a considerare inesatta tale tradizione che sarebbe nata da scorrette interpretazioni di alcune antiche testimonianze. L’attento esame del suo pensiero dimostra come la problematica affrontata da Senofane sia di carattere teologico e cosmologico, mentre gli Eleati fondarono la problematica ontologica. Per tali motivi gli studiosi tendono a considerare Senofane un pensatore indipendente, pur essendo evidenti alcune affinità gli Eleati, ma escludono che egli fosse tra i fondatori della scuola di Elea, così come molto incerta appare la sua influenza su Parmenide. Poniamo comunque questo filosofo all’interno della scuola di Elea per le affinità degli argomenti trattati e per rispetto a quelle testimonianze che ci dicono della sua presenza ad Elea.
2. Uno solo è il Dio. Nei suoi carmi Senofane critica la concezione degli dèi che Omero ed Esiodo avevano fissato in modo esemplare e che era propria della religione pubblica e dell'uomo greco in generale. Egli evidenzia l'errore di fondo dal quale scaturiscono tutte quante le false credenze che sono legate a tale concezione. Si tratta dell'antropomorfismo, cioè dell’abitudine che avevano gli uomini di attribuire agli dei forme esteriori, caratteristiche psicologiche e passioni uguali o del tutto simili a quelle degli uomini stessi. Di fatto gli dei si distinguevano dagli uomini solo quantitativamente ma non qualitativamente. Senofane irride questa falsa credenza obiettando che, se gli animali avessero mani e potessero effigiare gli dèi, li rappresenterebbero in forma di animali; esattamente come avviene tra i vari popoli, aggiungendo ad esempio che gli Etiopi, che sono neri e camusi, ed effigiano i loro dèi neri e camusi, e i Traci, che hanno capelli rossi e occhi azzurri, descrivono i loro dèi con tali caratteristiche. Ma gli uomini non si limitano a tali errori, essi attribuiscono, e questo è molto più grave, agli dei i loro stessi comportamenti, sia nel bene che nel male: e questo è del tutto assurdo.
Con tali accuse Senofane si oppone non solo la credibilità degli dèi tradizionali, ma anche quella dei loro celebrati cantori. I grandi poeti sono bollati come banditori di menzogne. L’attacco alle false credenze viene spinto fino alla demitizzazione delle varie spiegazioni mitiche dei fenomeni naturali, che erano attribuiti agli dei. Senofane cerca di razionalizzare i fenomeni fisici con affermazioni coraggiose, ad esempio l’arcobaleno non era una manifestazione della dea Iride ma “una nube, purpurea, violacea, verde a vedersi”.
3. Il nuovo ruolo della filosofia. Con Senofane la filosofia entra in aperto contrasto con la religione, e mostra la sua potente carica innovatrice, criticando credenze secolari che erano ritenute saldissime, contestando qualsiasi validità alle medesime, rivoluzionando interamente il modo di pensare e concepire la divinità che era stato proprio dell'uomo antico. Dopo tali critiche l'uomo occidentale si troverà a rivedere le sue concezioni del divino, iniziando a percepirlo non più secondo forme umane ma come un essere in sé con caratteristiche che trascendono l’esperienza.
Senofane mosse le sue critiche all'antropomorfismo e denunciò la fallacia della religione tradizionale basandosi sulle categorie tratte dalla filosofia della physis e dalla cosmologia ionica. Per cui si comprende come egli, dopo aver negato che la divinità possa essere concepita con forme umane, finisca per affermare che la divinità è il cosmo. Tale visione non è in contrasto con le fonti degli antichi che ci dicono che Senofane pose come “principio” la terra, né con i suoi versi dove afferma: “Tutto nasce dalla terra e tutto nella terra finisce”; “Terra e acqua sono tutte le cose che nascono e crescono”. Con quelle parole il filosofo non si riferiva all’universo intero, che non nasce, non muore e non diviene, ma alla sfera della nostra Terra. Per dimostrare quanto asseriva Senofane fece riferimento alla presenza di fossili marini sulle montagne, deducendo che in quei luoghi ci fu un tempo acqua oltre che terra e che quindi i due elementi dovevano essere tra loro legati in qualche maniera, riconoscendo alla terra il ruolo di elemento originario del nostro pianeta.